giovedì 8 dicembre 2011

C'eravamo Abbastanza Amati - Le Luci della Centrale Elettrica

È un atto quantomai azzardato intitolare con una citazione distorta un disco che contiene ben quattro citazioni - se così possiamo chiamare le cover, - su otto tracce. Nello specifico, “C'eravamo abbastanza amati”, EP de Le luci della centrale elettrica, uscito il 3 dicembre in allegato a XL, omaggia Franco Battiato, De Gregori, CCCP e Afterhours: quasi una dichiarazione, da parte di Vasco Brondi, sulla propria provenienza, su tutto ciò che ha influenzato i suoi progetti. Ma insieme a questo sguardo ad un passato presente, Brondi ci offre anche una sorta di immaginifico trailer delle proprie intenzioni future. L'inedita titletrack ricorda nella struttura musicale i lavori precedenti, ma con una leggerezza nuova che intreccia ai capelli “fiori di camomilla” e racconta di “campi di grano rettangolari” che pur nella loro standardizzazione geometrica ci restituiscono un'atmosfera oltremodo naturale, facendo un passo al di fuori da quella città onnipresente che aveva oppresso il cantautore ferrarese. Il tutto impreziosito dal violino elettrico e dal pianoforte di Rodrigo D'Erasmo. Si prosegue con “Summer on a solitary beach”, che non deturpa affatto la spiaggia descritta dal Maestro pur privandola delle sonorità elettroniche che la caratterizzavano: il risultato è una ballad onirica, liquida quanto quel mare in cui si spera di annegare. La cover di “Emilia paranoica” con il supporto di Giorgio Canali alla chitarra acustica non ha alcun tratto in comune con la durezza del tributo alla stessa canzone offerto dal duo Zamboni/Baraldi, ma non manca di energia, la stessa che Brondi aveva dimostrato di avere in pezzi come “I nostri corpi celesti”. Segue “Dolce amore del Bahia” in cui la via percorsa è quella di una bella e insolita fedeltà all'originale di De Gregori e una versione di “L'amore ai tempi dei licenziamenti dei metalmeccanici” che non aggiunge molto a quella compresa in “Per ora noi la chiameremo felicità”. Infine, l'apporto live di tre brani registrati il 3 settembre al Teatro Romano di Verona, tappa conclusiva del tour. “Un campo lungo cinematografico” con Rachele Bastreghi dei Baustelle, pezzo portante della colonna sonora di “Ruggine” di Daniele Gaglianone: una suggestiva ricerca atmosferica che sposa perfettamente le immagini di speranzosa malinconia della pellicola che accompagna. “Oceano di gomma”, con gli Afterhours al completo: una cover che a dire il vero poteva essere evitata, con la voce di Brondi che nell'affiancare quella di Agnelli conferisce un pathos eccessivo a un brano che è già struggente di per sé.
“Piromani”, che con il supporto di una sessione ritmica assente nella versione in studio e arrangiamenti in cui i musicisti non si risparmiano affatto, è l'equilibrata conclusione dell'EP, in bilico tra sogni e dirompente energia. In sostanza, dopo due album che avevano più punti di contatto che di divergenza, è probabile che Brondi si prepari a un'evoluzione. Lo dimostrano le lyrics dei due pezzi nuovi - più discorsive e prive di un certo abuso dello stream of consciousness – e l'ampio spazio lasciato ai musicisti suoi collaboratori, in nome di quel noi cantato, proclamato, gridato al megafono che finalmente trova piena applicazione.

Tracklist

01 C'eravamo Abbastanza Amati
02 Summer On A Solitary Beach
03 Emilia Paranoica
04 Dolce Amore Di Bahia
05 L'amore Ai Tempi Dei Metalmeccanici (Versione Con Vista Dai Tetti)
06 Un Campo Lungo Cinematrogafico (Live Con Rachele Bastreghi)
07 Oceano Gomma (Live Con Manuel Agnelli)
08 Piromani (Live)


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lunedì 7 novembre 2011

La Piazza - Ministri



“Ci vuole tempo per abituarsi alla fine,così si concludeva il primo lavoro dei Ministri di circa due anni fa. I soldi sono finiti era un prodotto spontaneo, rabbioso, che faceva riflettere con la forza dell’urlo nel microfono, con il richiamo al senso di perdita e dell’ironia come scampo alla dura realtà. Il nuovo Ep, La piazza, si apre con la traccia omonima che prende una direzione diversa. Dall’abituarsi, che sembra l’unico modo per giungere a comprendere, alla rassegnazione e alla denuncia in toni stranamente pacati e sofferenti. Un testo che scomoda le idi di marzo in modo intelligente e ricercato, adattabilissimo alla situazione in cui il mondo versa al momento. Guerra e pace, polvere e sale, rivolte violente e rivolte dell’animo, si trova tutto in questo pezzo, sicuramente il migliore per testo e brividi, considerando entrambi gli album. Diritto al tetto, corredato di video in rotazione sui canali musicali più conosciuti, piomba diritto al cervello e al senso comune, rianima lo spirito dei Ministri che molti conoscono, quello che non le manda a dire, ma che te lo sbatte direttamente in faccia, possibilmente con alla base una batteria incessante. Fari spenti e Meglio se non lo sai danno fondo al sarcasmo nero, e alla cronaca nera, ai clichè che ormai accompagnano la vita di ogni persona perfettamente integrata nella società di oggi. Tra la politica resa oscura ai più, l’allarmismo ecologico, lo smarrimento giovanile e il declino della discografia materiale i Ministri ci provano a fare un quadro completo di un Paese che a loro non piace più. E ci riescono eccome, con soli quattro pezzi. Troppo facile dire che sono i soliti ragazzini con le giacche identiche “che suonano indie”, che si lamentano della società e firmano con la grande etichetta, che inseriscono un euro nella copertina del disco perchè andare contro è tanto di moda. Ci vuole tempo (e nemmeno molto a conti fatti) per comprendere i Ministri, basta ascoltare un po’ attentamente per riconoscere un buon disco, curato, sincero e accessibile.


Tracklist
  1. La piazza
  2. Diritto al Tetto
  3. Fari Spenti
  4. Meglio se non lo sai
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Fonte: losthighways.it

lunedì 24 ottobre 2011

Io Tra di Noi - Dente



È un Dente almeno in superficie più maturo e dimesso quello che si intravede tra le righe di "Io tra di noi"; a trentacinque anni e al suo quarto disco, Giuseppe Peveri si presenta in maniera leggermente più compassata rispetto alle uscite precedenti, senza tuttavia rinunciare alla sua ironia agrodolce e al gusto del calembour, entrambi tratti salienti che hanno richiamato l'attenzione di un pubblico sempre più vasto, in particolare sui due album precedenti, "Non c'è due senza te" e "L'amore non è bello".
Sarebbe stato, in effetti, gioco facile provare nuovamente a colpire con qualche battuta a effetto, con altre storie in grado di strappare sorrisi più o meno amari e con ritornelli che entrano in testa al primo ascolto; invece, fedele alle sue contorsioni mentali, Dente predilige una forma in un certo senso meno immediata dal punto di vista narrativo, alla quale corrisponde una maggiore elaborazione degli arrangiamenti che, grazie al contributo di una band stabile, spaziano da organetti vintage a impetuose aperture di fiati e archi, dalla spoglia essenzialità di voce e chitarra ad atmosfere lievemente trasognate e in prevalenza imperlate da sottili granelli di polvere.

Se si eccettua l'indovinato singolo "Saldati", con i suoi versi "portami a vedere il cielo anche se è nuvolo, ho tanto caldo anche se è inverno", nei dodici brani di "Io tra di noi" non si scorgono tracce del possibile tormentone, quanto piuttosto numerose prove della capacità di Dente di sintetizzare con spontaneità istantanee di amori sbagliati, batticuori passeggeri, l'immaturità e l'umana incertezza di buona parte della sua generazione.
Dalle tante negazioni che non affermano dell'iniziale "Due volte niente" ai ricordi non condivisi di "Io sì", dal fatalismo della vivace e battistiana "Piccolo destino ridicolo" ("più che il destino è stata l'Adsl che via ha unito") al candore retrò alla Ivan Graziani di "Puntino sulla i", l'album offre una serie di quadretti in bianco e nero dai quali emerge la figura di un artista che, piuttosto che occhieggiare al gusto "indie italiano" prevalente, preferisce ritrarsi nell'ombra di una solitudine assaporata e gestita col consueto piglio ironico, anche se più amaro rispetto al passato (memorabile, tra le altre ricercatezze linguistiche, l'ambivalenza dell'espressione "una persona sola" in "Da Varese a quel paese").

Dente, in fondo, continua a non prendersi molto sul serio, sorvolando con levità le ferite dell'anima e divertendosi a soffocare sul nascere i rischi di un eccesso di melassa, come nel caso dei quarantasette secondi dell'autosufficiente miniatura "Cuore di pietra" o del risveglio al pathos della seconda parte di "Casa tua", che con repentina vivacità orchestrale infrange l'estatica tensione sessuale, poeticamente rappresentata nella prima.
Discorso a sé merita la lunga jam conclusiva "Rette parallele", eccentrica rispetto al resto del disco non per tematica (l'amore impossibile tra entità destinate a non incontrarsi mai) ma per i suoi sette minuti di durata, con tanto di arrangiamento tropicaleggiante e un vivace inserto di pianoforte che fa tanto "Misread". Si tratta forse dell'unico divertissement di un album altrimenti compunto e più seriamente introspettivo di quanto l'artista emiliano non fosse solito finora.

Gli anni passano anche per lui e la sua scrittura si affina, diventando più scarna e pacata ma non per questo meno istintiva; e anche se in "Io tra di noi" mancano i passaggi da tormentone, l'album non manca di suscitare riflessioni e sorrisi amari e quell'attenzione d'ascolto che solo un buon impianto cantautorale può riuscire a destare. Se poi la sua proposta risulterà nuovamente troppo poco accomodante per i palati più semplici e troppo poco intellettuale per le ricercatezze a tutti i costi tanto in voga nella musica "alternativa" italiana, probabilmente Dente se ne curerà ben poco e continuerà a celebrare il tutto con amarezza beffarda, lanciandosi in solitudine altri coriandoli sulla testa.


Tracklist

1 Due Volte Niente
2 Piccolo Destino Ridicolo
3 Saldati
4 Casa Tua
5 Cuore di Pietra
6 Giudizio Universatile
7 Da Varese a Quel Paese
8 Io Sì
9 Puntino sulla i
10 La Settimana Enigmatica
11 Pensiero Associativo
12 Rette Parallele 


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Fonte: Ondarock

giovedì 20 ottobre 2011

Le Cose che Contano - Dente


Le cose che contano è il nuovo EP di Dente, un simpatico e rilassato, seppur gradito, esperimento in vista dell’album in programma per il prossimo autunno. Quattro canzoni che, non prendendosi troppo sul serio, giocano sull’improvvisazione sonora grazie alla compartecipazione in fase di arrangiamento e registrazione (avvenuta in soli due giorni, in presa diretta, al Magazzeno Bis di Bologna) di affermati musicisti come Roberto Dell'Era (Afterhours), Enrico Gabrielli (Mariposa e Afterhours), Enzo Cimino (Mariposa) e Valerio Canè. Sono proprio gli apporti strumentali di quest’ultimi a donare una luce nuova alle canzoni del Nostro.
Infatti, quello scarno incedere chitarristico in bassa fedeltà, emerso timidamente nell’esordio Anice in bocca (Jestrai, 2006) e maturato originalmente nel seguente Le cose che contano(Jestrai, 2007), è ora quasi del tutto assente, tanto è ricoperto di decorazioni e ornamenti sonori molto, molto rétro (theremin, fiati, tastiere, percussioni, ecc.). Ciò che non cambia è invece quel suo modo trasognato, ironico e scanzonato di interpretare le sue liriche, per l’occasione, tutte basate sulla matematica e sul rapporto con i numeri.
Così tra un gioco di parole e l’altro filano via in rapida successione questi deliziosi bozzetti indie-pop, ora in preda a improvvisazioni jazz che evocano addirittura il migliore Pino Daniele (Le cose che contano), ora intrisi di spensierata malinconia pop à la Battisti (Due gocce, l’episodio più immediato e più vicino allo stle Dente), senza lasciare né forti emozioni né cocenti delusioni. Un EP poco pretenzioso da assimilare come un piacevole e rilassante antipasto in attesa dell’album vero e proprio. Perché ci sono cose che contano e altre no, proprio come canta il Nostro nella title track.

Tracklist

  1. Le Cose Che Contano
  2. L'Amore Non E' Un'Opinione
  3. Due Gocce
  4. Ti Regalo Un Anello

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sabato 15 ottobre 2011

Tempi Bui - Ministri

Lasciare un segno. Ogni canzone dovrebbe aspirare a ciò. Mettendo in gioco il talento musicale, certo, ma anche la lucidità per guardarsi intorno e andare fino in fondo, descrivendo verità generazionali che travalicano le note. Li aspettavamo, i Ministri. Perché figli di quella parte di coscienza contemporanea stanca di promesse sul domani. I Ministri scendono dal treno in corsa verso il futuro e si mettono a sviscerare il presente. "Tempi Bui" è un concept album sui giorni nostri. Non c'è un altrove musicale, nè sguardi in orizzontale verso mondi immaginari. Si punta dritto all'oggi per vivisezionarlo in verticale, con la rabbia di chi non ce la fa più ad inventare scuse e poesie per sopravvivere, ma vuole risposte concrete prima di ripartire. Li guida una sorta di pessimismo costruttivo, lucido e reattivo. E si prendono la responsabilità di dire le cose. Di fare nomi e riferimenti schietti. Canzoni rock in italiano come negli anni novanta, ma senza revival. Un passo in avanti rispetto a quel piccolo ed incosciente gioiello che era "I soldi sono finiti". Un disco che scorre come un corpo unico, affrontando le tematiche del lavoro, della comunicazione sociale, della sopravvivenza quotidiana e della ricostruzione di un senso culturale ed economico. Rock duro e grezzo, alternativo come si faceva a Milano quindici anni fa. Molto semplice, essenziale. Con le chitarre ad alto volume, un ritmo tiratissimo ed un canto a tutta voce. Scomposti, violenti, diretti. Senza ghirigori intellettuali. Dritti al cuore della faccenda, con una voglia di interagire con le nostre radici culturali svelata negli sketches etnici e dialettali tra un brano e l'altro, che da apparenti corpi estranei si dimostrano legante concettuale di tutto il disco. I Ministri si servono di strutture tradizionali, spesso fatte di banale strofa e ritornello, ma le vestono di dirompente profondità emotiva, con un'intensità strumentale in cui riverberano reminescenze quasi grunge e sottilissimi impulsi wave punk. Nessuna sperimentazione, ma un alto livello di scrittura cantautoriale che veste sfoghi ed invettive. E lo sfondo politico, quando c'è, non è schierato, ma molto furbo. Il disco scorre di frenesia in frenesia, e pur con qualche tentativo di arrangiamento più complesso, sono chitarra-basso-batteria a far da padroni. Dal manifesto iniziale del singolo "Tempi bui", alla violenza accusatoria di "Bevo". Dalla rabbiosa rivendicazione sociale di "Diritto al tetto", all'allegoria distruttiva di "La casa brucia". C'è spazio anche per l'ironia pop di "La faccia di Briatore" e per la soffice melodia della "Ballata del lavoro interinale". E poi quel capolavoro de "Il bel canto", che parte sottovoce ed esplode in un crescendo che prende allo stomaco: pezzo magnifico. Certo, qualcosa ogni tanto perde bellezza, ma il progetto ha identità e guarda il nemico dritto negli occhi. Forse ancora un po' ermetici per parlare alle grandi folle, i Ministri hanno comunque l'occasione di conquistare uno spazio importante ed iniziare un percorso che potrebbe portarli a diventare uno dei cardini del rock italiano nei prossimi anni. Non è chiaro se sia questo il disco della svolta, la strada è lunga, ma la partenza è lanciata. E se davvero il futuro è una trappola come dicono loro, forse queste canzoni possono suggerire un modo per caderci con consapevolezza.


Tracklist

01. Tempi bui
02. Bevo
03. Il futuro è una trappola
04. La faccia di Briatore
05. Il bel canto
06. La casa brucia
07. Diritto al tetto
08. Berlino 3
09. E se poi si spegne tutto
10. Vicenza (la voglio anche io una base a)
11. Ballata del lavoro interinale 


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Fonte: Rockit

mercoledì 12 ottobre 2011

Infinite Arms - Band of Horses


Si ha un bel dire: l'"apertura mentale", "non farsi influenzare da ciò che è stato", "facciamo piazza pulita dei pregiudizi". Per molti di quelli che rimasero stregati dai sommovimenti tellurici di "Everything All The Time" questo "Infinite Arms" rappresenterà, probabilmente, un duro ritorno alla realtà. Eppure, provando a sondare il disco con mente vergine, per quanto possibile, si scopre che la Band Of Horses è cambiata, più di quello che sembra.
Senza affrettarsi a definire questo cambiamento uno scadimento "ormonale", già cominciato con "Cease To Begin", della purezza della musica del gruppo, "Infinite Arms" suona anzi piacevolmente disimpegnato, senza pretese se non quelle di tratteggiare qualche melodia più o meno trascinante e dipingere innocui quadretti di ingenuo romanticismo. Scomparsa la fretta di replicare a "Everything All The Time", la Band Of Horses si riconsegna al giudizio del pubblico appagata e sorniona.

Il nuovo disco del gruppo, della cui uscita si rincorrevano notizie da almeno un anno, suona infatti come una gioiosa liberazione dalle aspettative che l'esordio aveva indotto nel pubblico; "Infinite Arms" non è altro se non la riunione di musicisti appassionati, forse neanche troppo affezionati ai connotati della band, insieme per suonare senza la preoccupazione di accattivarsi i favori dei fan.
Non pochi di questi ultimi (tra di essi chi scrive) saranno rimasti di sasso, la prima volta che il motivo gonfio di testosterone di "Compliments", singolo di lancio, li ha investiti col suo ritornello roboante (in fondo gradevole, a dirla tutta) e la sua linearità grossolana.

Ci sono tutti i crismi, insomma, per far inorridire il pubblico più intransigente, quello che avrà tra le sue certezze l'appartenenza di questo disco al mucchio delle peggiori pacchianerie. E, in effetti, la pomposità dell'accompagnamento d'archi dell'iniziale "Factory" suona davvero pacchiana, un forse inutile vezzo che ci sarebbe aspettati da tutt'altro disco, uno di Neil Hannon, per dirne uno (con ben altri esiti, s'intende). Si ha l'impressione, in fondo, di essere tornati ai tempi d'oro del brit-pop, melodie zuccherose addobbate con abiti spavaldi e una totale assenza di spigoli; il tutto reincarnato, però, in una band vestita di camicia a scacchi e vaqueros.
Una sensazione di "magniloquenza emotiva" che traspare da tutta la prima metà del disco (non a caso quasi del tutto in maggiore), dall'ormonale cowboy-rock di "Laredo" alla coda fin troppo ammiccante di "Blue Beard" (in tutti i sensi: "Take a little time, gonna roll the dice/ Taken for a ride, any normal life will do, too/ Find another way, try to break the ice/ Every day and night, the banana peels were true, true").

"Blue Beard" rimane comunque un buon pezzo, una sorta di serenata cullante, in cui la sempre sorprendente vocalità di Bridwell si sposa mirabilmente con gli scrosci di chitarra e piatti che lo accompagnano. Risultato replicato nel volteggio primaverile di "On My Way Back Home", nella cui delicata melodia Ben pare seguire le orme del cofondatore della band, Mat Brooke. Il parallelismo con i Grand Archives di Mat rimane percepibile in realtà per tutto il disco, per la fusione tra pop anni 60 ("Dilly") e soffici "lenti" a base di pedal steel ("Older"). Il continuo ricorso ad armonizzazioni e coretti - arricchimenti di cui, peraltro, la voce di Bridwell, non ci stancheremo di ripeterlo, non ha bisogno - risulta inevitabilmente stucchevole nello sviluppo del disco, a maggior ragione dato che, soprattutto nella seconda metà, l'ispirazione cala drasticamente.
La band si limita al ricalco, senza riuscire a riprendere il trasporto emotivo delle ballate di "Cease To Begin", cercando di supplire con arrangiamenti grandiosi allo scarso peso specifico delle composizioni (la title track è un esempio lampante). Un pezzo di power-pop sconclusionato come "NW Apt.", ritrovabile al più negli ultimi dischi di band alla deriva come gli Snow Patrol, è un campanello d'allarme ben in vista. Forse più inaspettato è l'arpeggio faheyano che introduce "For Annabelle", per il resto una ballata piuttosto innocua.

La Band Of Horses pare insomma seguire la parabola di band come i Kings Of Leon, dall'orgogliosa identità southern-rock al salto della barricata, dall'aspetto di simpatici contadinotti al tambureggiamento di video patinati. Chi vede le cose in questa maniera dicotomica si affretterà a definirli un'altra indie-boyband; in realtà Bridwell è, con ogni probabilità, la stessa persona di sempre, e "Infinite Arms" un lavoro di basso profilo, in cui le sue intuizioni melodiche sembrano scarseggiare rispetto al solito.

Tracklist

01 Factory
02 Compliments
03 Laredo
04 Blue Beard
05 On My Way Back Home
06 Infinite Arms
07 Dilly
08 Evening Kitchen
09 Older
10 For Annabelle
11 NW Apt.
12 Neighbor


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Fonte: Ondarock

martedì 11 ottobre 2011

Per Ora Noi La Chiameremo Felicità - Le Luci della Centrale Elettrica



Mettiamola così: se uno non avesse mai ascoltato "Canzoni da spiaggia deturpata", allora "Per ora noi la chiameremo felicità" sarebbe un disco in grado di avere un senso. È un secondo album che potrebbe andare bene come primo - meno potente dell'esordio, con più incertezze, ma comunque significativo.
E invece ha la disgrazia di seguire un piccolo capolavoro, provando a esserne la copia carbone, senza introdurre alcun elemento nel paesaggio tracciato in precedenza.
In linea di massima le canzoni suonano anche bene; alcune no ("Anidride carbonica", ad esempio), altre molto, come "Quando tornerai dall'estero". Ma, più che un disco, sembra la medesima litania, la medesima preghiera a un cielo vuoto ripetuta senza variazioni. La verità è che qui il punto non sono le canzoni. Potrebbe suonare paradossale, ma non si tratta né di superficialità d'ascolto né di pregiudizio negativo. Anzi, è facile lasciarsi andare al periodare brondiano, aderire al suo vangelo e magari perdere l'occhio critico verso le note in quanto tali. Ecco: così come la forza sorgiva delle sue canzoni migliori è soprattutto di ordine extramusicale - poiché disegna uno scenario condiviso, raccoglie emozioni biografiche, smuove sentimenti storici - allo stesso modo il problema di questo disco è innanzitutto extramusicale.
E cioè: l'innocenza persa non si recupera più.

Questo non significa che "Per ora noi la chiameremo felicità" sia un brutto disco tout court.
E non significa nemmeno che il peccato sommo sia crescere, fandonia buona per gli adolescenzialisti. Il peccato sommo è scimmiottare l'innocenza perduta.
"Canzoni da spiaggia deturpata" ha avuto l'effetto di un fulmine improvviso e crudele, di un autentico evento. Al secondo fulmine, tuttavia, si fa strada l'idea che non è una divinità a scagliare la sua saetta bensì un semplice fenomeno atmosferico.
Non crediate che la rabbia e il dolore non possano essere naturalizzati. Non crediate che basti essere fedeli a se stessi per rendere onore alla bellezza. Anzi. Tutto può essere stilizzato e reso una macchietta: è sufficiente ripeterlo. Ripetere i soliti, sempre identici, giri d'acustica e il solito, sempre identico, cantato nervoso. Ripetere le stesse immagini, gli stessi umori, per altre dieci canzoni.

Il "noi" del primo album di Vasco Brondi era un plurale che includeva con naturalezza, il "tu" delle sue prime canzoni un vocativo nel quale riconoscersi, compenetrandovisi fino a identificarsi in uno di quei "tu", un singolo cui è stata dedicata una canzone che è insieme parte di tanti altri, parte di quella ferocia, di quella vergine disperazione. Ora invece questa comunione suscita un rifiuto immediato, una reazione come "no, non sono questa cosa, non posso essere soltanto e di nuovo questa cosa": "un bilocale da trecento euro al mese", "e il vapore acqueo delle nostre illusioni", "distruggere una fabbrica perché troppo malinconica", "dai nostri martedì magri", "parlami delle tue galere", e così via. Non si può essere di nuovo la scheggia di un disegno espressionista in bianco e nero, sempre incazzato o inferocito o sepolto dalle piogge o appartenente a una nebbia di tristezza collettiva. Non si può essere di nuovo l'immagine di un ragazzo che alza i pugni a un cielo nordico, bianco, distrutto, che conosce fin troppo bene.
Non può esserci la copia carbone di alcune emozioni così forti, troppo forti, al limite esse stesse della retorica e che nel primo disco si salvavano proprio perché sputate fuori senza vergogna e paura: un urlo che non sembrava riducibile a niente, indifeso e stupendo nella sua fragilità, che invece qui inciampa nel rischio più grande, ancora più grande dell'edulcorazione. Ripetersi tale e quale.

Non si tratta soltanto di "crescere" o "evolversi" come artista. Queste sono categorie troppo vaghe per essere utilizzate con coscienza. Ma se la musica di Vasco Brondi ha avuto l'impatto che ha avuto, è perché si trattava, appunto, di un evento. E la forza della musica come evento ed emozione biografica sta nella sua unicità.
Cristo viene crocifisso una volta sola: un nuovo Golgota farebbe ridere. Allo stesso modo, la prima volta che parli di periferie, amori distrutti e antenne è tutto bellissimo: nuovo, fresco, finalmente tuo. Dopo, suona falso.


Tracklist


  1. Cara catastrofe - 2:56
  2. Quando tornerai dall'estero - 3:23
  3. Una guerra fredda - 3:49
  4. Fuochi artificiali - 2:25
  5. L'amore ai tempi dei licenziamenti dei metalmeccanici - 3:49
  6. Anidride carbonica - 4:19
  7. Le petroliere - 4:19
  8. Per respingerti in mare - 4:04
  9. I nostri corpi celesti - 2:07
  10. Le ragazze kamikaze - 3:43

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Fonte: Ondarock

domenica 9 ottobre 2011

Canzoni da Spiaggia Deturpata - Le Luci della Centrale Elettrica


Da spiaggia deturpata perché non è più il tempo per cantare Battisti in riva al mare, per ribellioni infinite, per idealismi puri e solari; gli anni di Vlad sono gli anni '00, gli anni delle gigantesche scritte Coop senza i CCCP, gli anni post-"X-generation", gli anni del nichilismo sociale e generazionale. Allora i suoi testi sono scritti brevi, che potrebbero provenire da qualsiasi blog, sono frammenti di rabbia pura che rispecchiano l'insoddisfazione di vivere in una città vuota, senza altri svaghi se non andare a guardare le luci della centrale elettrica oppure usare un po' di stagnola in maniera alternativa, la gabbia cammuffata da libertà del 2.0. Il tutto accompagnato dall'acustica febbricitante del giovane ferrarese, solcata e graffiata da desertici allunghi elettrici, oppure bruciata e lacerata da potenti esplosioni rumorose al limite dello shoegaze.

Musica. E' un incrocio di umori e momenti che cercano di fare da impalcatura alla voce del nostro, finendo però per sembrare una semplice colonna sonora da spettacolo teatrale. Il cantato di Vlad è infatti piuttosto un recitato, al limite tra Massimo Volume e Gaber, ma senza l'intensa drammaticità dei primi e la pungente ironia del secondo. La melodia vocale è lasciata in disparte e viene tirata fuori solo in compagnia della malinconia ("Nei garage a Milano nord", "Per combattere l'acne"), oppure nei pezzi più canonici e rock, anche se rock non sono mai ("La lotta armata al Bar"), lasciandoci quindi con tentativi poco riusciti che raggiungono picchi di intensità solo raramente: penso soprattutto alla parte finale di "Piromani", forse il pezzo più bello del disco, veramente intensa e sanguinante.

La chitarra acustica, suonata proprio da Vlad, è lo strumento centrale, con le sue pennate ritmiche e decise che non concedono molto spazio all'immaginazione e tantomeno all'originalità, finendo spesso in secondo piano e lasciando quindi un vuoto strano e scoraggiante alla base musicale.
Il limite peggiore di questa scelta strumentale è però la ripetitività: considerata efficace la schitarrata dell'opening, ci si ritrova dopo cinque pezzi ad anticipare ogni variazione melodica. Fortunatamente arrivano gli inserti elettrici di Canali a dare letteralmente una scossa ai pezzi: molto belli i piccoli lampi di "Lacrimogeni", al limite del blues il riff di "Sere feriali" che esplode epicamente in un riffone verso la conclusione; interessante anche la linea di "Stagnola", vagamente shoegaze.
Purtroppo, però, sono episodi troppo spesso sporadici, lasciati a se stessi e poco approfonditi; e pensare che quando vengono sviluppati (la parte centrale di "Nei garage a Milano nord") aggiungono un valore immenso ai pezzi.

Parole. Il lato forse più in mostra dell'opera prima di Vlad è tenuto in gran spolvero per tutto il disco: pochi i momenti meramente strumentali, molto lo spazio (anche in sede di produzione) per la voce.
I testi di "Canzoni da spiaggia deturpata" sono lo specchio della generazione degli anni '00, senza speranza negli ideali dei padri ma con un'infinita voglia di combattere la realtà, di cambiare. "Trasformiamo questa città in un'altra cazzo di città" urla Vlad, in preda alla noia da provincia meccaninca asettica e vuota. Noia che porta inevitabilmente al rifugio della droga, piccolo momento personale-sociale ("un po' di stagnola per addobbare a festa questa stanza di merda").
Sono gli sfoghi dei figli del suburbanismo del nuovo millennio, dove i finestrini dei Tav, i marciapiedi dei quartieri industriali, le discariche e le centrali elettriche sono i paesaggi per storie d'amore e d'amicizia che troppe volte sono ridotte ai sentimenti da consumo che la società impone.
La fuga? Una soluzione troppo facile per chi, come Vlad, ha voglia di combattere e vincere con i propri sforzi privi di speranza la sua situazione. Forze contrastanti che tuonano assieme e confondono, alienano. Il tutto annegato nelle nostalgie di chi i tempi migliori li ha vissuti, li ha usati e ora li vorrebbe reciclere ("i CCCP non ci sono più").

"Canzoni da spiaggia deturpata" è un disco poco sviluppato per le sue potenzialità, lascia molte cose in sospeso e non riesce mai ad affondare il colpo, se non in pochi episodi. Tra la fretta di comunicare e la necessità di ricamare il tessuto musicale, non vince nessuna parte e si rimane con l'amaro in bocca per l'occasione mancata. Non bastano gli interessanti testi, che rendono Vasco "Vlad" Brondi una promessa importante per il cantautorato italiano contemporaneo, a dare spessore all'intero disco: per quello basterebbe leggere il blog.
Dopo che le dieci tracce sono scorse, si ha l'idea che manchi qualcosa, come una maggiore originalità in fase compositiva. Nel complesso, comunque, un disco che si merita la sufficienza piena con l'aggiunta del classico "potrebbe fare di più".


Tracklist

1. Lacrimogeni
2. Per combattere l'acne
3. Sere feriali
4. Stagnola
5. Piromani
6. La lotta armata al bar
7. La gigantesca scritta coop
8. Fare i camerieri
9. Produzioni seriali di cieli stellati
10. Nei garage di Milano Nord






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Fonte: Ondarock

sabato 8 ottobre 2011

If I Had a Hi-Fi - Nada Surf


In questo 2010 arriva la loro nuova creazione: If I Had A Hi-Fi un album di cover rivisitate nel loro indie rock americano per nulla scontato.
In questo nuovo album al quale hanno collaborato Martin Wenk dei Calexico, Phil Peterson dei Kay Kay and The Weathered Underground, Joe McGinty , già con i Psychedelic Furs e Ryan Adams e Holly Miranda, troviamo brani rivisitati in maniera melodica ma anche con metodo eclettico.
Si parte con Electrocution di Bill Fox, atmosfere alla Mamas & Papas e ritmo solare ed energico.
Seconda traccia è una stravolta Enjoy The Silence dei Depeche Mode, punta di diamante dell’intero album, a tratti quasi irriconoscibile.
Love Goes On dei The Go-Betweens arriva a ruota e sembra un piacevole mix fra wave e Belle And Sebastian.
Si passa poi al dream pop di Janine di Arthur Russell e le atmosfere si fanno più dimesse, così come in You Were So Warm di Dwight Twiley che aumenta di ritmo sul finire del brano e lascia spazio all’irresistibile Love And Hanger di Kate Bush.
La particolarità di questo album sta nel non aver scelto brani di grido, escluso Enjoy The Silence, così come conferma la successiva The Agony Of Laffitte dei texani Spoon.
Si avanza piacevolmente sorpresi nell’ascolto incontrando anche la piacevolissima Bye Bye Beaute della francese Coralie Clement.
Con Question dei Moody Blues si torna al sound energico, così come con il power pop da college di Bright Side dei The Soft Pack.
Chiudono l’album la cupa ma bellissima Evolution degli spagnoli Mecromina ed il gioioso pop sognante strumentale quale è I Remembered What I Was Going to Say dei The Silly Pillows.
Un album sicuramente non immediato questo di cover dei Nada Surf, che avrebbero potuto scegliere una strada più ruffiana e invece hanno privilegiato probabilmente il far trasparire l’esigenza di reinterpretare questi brani, molti dei quali quasi sconosciuti almeno qua in Italia.
Consigliato a tutti quelli che hanno voglia di ascoltarsi 40 minuti di poprock fortemente indie-oriented e a tutti gli amanti delle atmosfere armoniche che da sempre sono marchio di fabbrica dei Nada Surf.


Tracklist

1. Electrocution (Bill Fox)
2. Enjoy the Silence (Depeche Mode)
3. Love Goes On (The Go-Betweens)
4. Janine (Arthur Russell)
5. You Were So Warm (Dwight Twilley)
6. Love and Anger (Kate Bush)
7. The Agony of Laffitte (Spoon)
8. Bye Bye Beaute (Coralie Clement)
9. Question (Moody Blues)
10. Bright Side (The Soft Pack)
11. Evolution (Mecromina)
12. I Remembered What I Was Going to Say (The Silly Pillows) 


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Fonte: Rockshock

venerdì 7 ottobre 2011

Nel Nome di Chi? - L'Invasione degli Omini Verdi


Sono passati circa dieci anni da quando gli omini verdi hanno invaso la terra. I loro precedenti album hanno contraddistinto l’hardcore melodico nostrano di qualità in un periodo in cui le band punk rock proliferavano e i music club si riempivano.

Oggi tornano con questo “Nel nome di chi?”, un album ricco di contenuti formato da undici tracce ben suonate, e masterizzate da Jason Livermore preso il Blasting room studio (Colorado – Usa). Già, i Visitors del punk melodico italiano hanno lasciato il loro segno anche negli Stati Uniti! L’open track “L’italia che muore” è un cocktail di rabbia ed energia, mentre in “Nel nome di chi?” la band si scaglia contro il bigottismo esasperato del potere ecclesiale. I testi sono tutti di spessore come in “La terra trema”, pezzo che sottolinea le responsabilità degli uomini nella distruzione della natura. I ritmi sono frenetici e i ritornelli sempre indovinati rendendo il tutto esplosivo! Chitarre punk’n’roll in “La striscia del pianto”, ritmi inizialmente acustici e poi più rock in “La linea del tempo”.

Nel complesso si tratta di un album che incorona ancor più L’invasione degli omini verdi come protagonisti della scena punk rock di un’Italia che grazie a band come loro, non muore!

Tracklist

1 L’Italia che muore
2 Lamenti
3 Nel nome di chi?
4 La striscia del pianto
5 Invisibile
6 Spiegami perché
7 Stagioni perdute
8 Il cielo che non c’è
9 La terra trema
10 Fantasmi
11 La linea del tempo


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Fonte: kdcobain 

Sono all'Osso - Pan del Diavolo


Il bisogno è quello di una scarnificazione rigeneratrice, di un ritorno ai primordi del rock’n’roll, passando per le misteriose esalazioni di un folk vera sorgente di vita.

Da Palermo, ecco, allora, Il Pan del Diavolo, duo composto da Pietro Alessandro Alosi (voce, chitarra, grancassa) e Gianluca Bartolo (chitarra 12 corde), già autori di un Ep e oggi forti di un esordio che potrebbe essere indizio di interessanti sviluppi futuri. Usiamo il condizionale perché, se il sound appare già maturo e vivace, non tutti i brani sembrano poter reggere all’urto del tempo.

“Sono all’osso”, dunque: ovvero, la scarnificazione di cui sopra e via di questo passo. Tralasciando la ballata “Africa”, pregna di malinconico stupore, tutto il disco si muove dentro coordinate folk’n’roll che, oltre a pescare nella stanza dei ricordi della musica popolare (anche quella veramente “popolare”, vedi la nostalgia nel vento di “Il boom” o lo stornello di “Scarpette a punta”), rigenera anche il mito dei Violent Femmes per quell’attitudine punk che non mente mai. Liriche sarcastiche, velenose, rabbiose: un po’ di Rino Gaetano nel cuore (“Farà cadere lei”, “Ciriaco”), ma anche un anarchico abbandono, su coordinate bluegrass (“Voglio fare tutto/ ma tutto non si può fare” e, quindi, “faccio quello che mi pare”, da “Pertanto”) o country (“Il mistero dello specchio rotto”). Con piglio corale, volteggia, invece, “Il centauro”, fino ai battimani contagiosi di “Università”.

C’è, oltre allo sberleffo, il sentimento profondo di una disfatta che genera “mostri”, che trasforma la disperazione in furia dissacrante. Peccato, però, che il disco perda progressivamente la sua carica esplosiva, quasi che la band, mostrati gli artigli, si accontenti di starsene in disparte, belva feroce ma innocua se tenuta a debita distanza. E per “Bomba nel cuore” arrivano gli Zen Circus, ma è un allungo che non conclude… Un po’ come la vita, insomma. Un po’ come un disco che, a conti fatti, solo a tratti si riesce davvero ad apprezzare.
E, per la musica italiana, questo serve a poco.

Tracklist

01. Farà Cadere Lei
02. Pertanto
03. Il Centauro
04. Università
05. Lux Interior
06. Bomba nel Cuore
07. Il Boom
08. Il Mistero dello Specchio Rotto
09. Sono all'Osso
10. Africa
11. Ciriaco
12. Scarpette a Punta


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Fonte: Ondarock

giovedì 6 ottobre 2011

Villa Inferno - Zen Circus & Brian Ritchie



Qualche tempo fa, sopraggiunte per me nuove mansioni lavorative e altrettanto mirabolanti nuove frontiere, decisi che la mia missione socioculturale doveva necessariamente prescindere dallo strumento "recensione musicale". Strumento vecchio e gommoso. E che dunque, considerate la I-epoca di ascolto frammentato in cui viviamo e la morte del disco inteso come tale, non avrei mai più scritto alcunchè di "critico" (semmai di partecipativo) su album o affini.
Poi ho ascoltato l'ultimo degli Zen Circus + Brian Ritchie.
E ho deciso di fare un'eccezione.
Ma non nel senso di recensione, quelle le scrivono i giornalisti musicali (e io non lo sono). Ma nel senso di album. E di gruppo. E di MusicaIitaliana. Partiamo dal concetto di gruppo. Gli Zen Circus, fino a poco tempo fa conosciuti prima come talentuosi e promettenti folk punk rockers, poi come irrisolti rockers, e ancora come sventrapapere pisani e tombeur des femmes nonchè buskers d'altri tempi e altri luoghi, casinari e riottosi ma bravi quando lo volevano, be', ora gli Zen Circus l'hanno fatta grossa. Grossa, sisi. Grossa e bella. Senza che nessuno se lo aspettasse, e con lo stupore di molti (i soliti stupidi invidiosi e ingrati) che ancora stentano a crederci, hanno prima conquistato Brian Ritchie (il sempiterno bassista degli indimenticabili Violent Femmes), il quale si è innamorato di questo progetto folle, visionario e romantico, non solo proponendosi come produttore del disco, ma addirittura entrando in line up come quarto membro aggiunto. Clamoroso. Se abitassimo in una Nazione nella quale la Musica fosse una cosa importante, i giornali titolerebbero a colonne. Insieme, hanno coinvolto una serie di ospiti che rappresentano la Storia del rock (alternative, indie, e no) internazionale, facendone il lustro di un disco meraviglioso, traboccante d'immaginario, frutto di un percorso non solo artistico ma anche di vita, lavorato con cura. Quella delle cose importanti.
Dicevamo poi: album. Partiamo? Piccola accordatura alla chitarra, un paio di bestemmie, un sorso di birra. Si va. Il singolo scelto per lanciare l'album è "Punk Lullaby", ai cui cori hanno contribuito le gemelle Kim Deal (bassista dei Pixies, chitarrista nelle Breeders) e Kelley Deal (basso nelle Breeders). L'assaggio per coloro che ancora non sanno è come "con tutte le ragazze": tremendo. Mood pixiesiano, incedere accattivante, piglio come fosse un uncino. Per chi - come me - aveva amato "Sailing Song" di "Doctor Seduction" (Le Parc Music, 2004), qui c'è la quadratura del cerchio. La completezza. La scrittura, innanzitutto. La capacità cioè di mediare fra la Morte, il rock, e la Vita. Ovvero tutto quello che gli Zen Circus buttano dentro questo disco. Aprendo, non a caso, una "Villa Inferno", il posto dove il cadavere del rock balla molto meglio dello spettro della società. Disegnando un mondo in cui la gloria è vana e a vent'anni si è dei grandissimi stronzi, terre città e posti da loro percorsi in acustico, buskers con il cappellino per i soldi, un mondo dove "ho i piedi sporchi / e nessuna parte dove andare", dove "devi suonare la batteria, ragazzo / devi suonarla più forte". Ma è la sensazione di armonia la cosa più travolgente all'ascolto. Il sentirsi racchiusi in un immaginario che regala una visione del mondo. La stessa "Wild Wild Life" dei Talking Heads coverizzata in questo disco. E sapete la cosa bella? Che è proprio Jerry Harrison, ovvero colui che quelle tastiere le suonò già nella versione originale, l'altra collaborazione di livello di "Villa Inferno".
Ma fra un ospite e l'altro é la pacca dei pisani a lasciare senza fiato. Dopo anni di tentativi e panni lavati a mano nelle fontane delle città, l'ispirazione e l'espressione vengono mediate in quello che è senza ombra di dubbio il capolavoro della band. Senza magari neanche volerlo, fanno un regalo alla Musica Italiana, che con il rock – si sa – non ha mai avuto questo gran feeling. Metabolizzano il background e lo rendono proprio - tanto da convincere proprio gli eroi di quel background a entrare in questo presente senza altri motivi oltre alla Musica. Perchè la verità è che Appino, Ufo e Karim hanno superato tutti i loro limiti. Si sono messi in discussione. E hanno vinto. E lo possiamo sentire tutti, senza patemi d'animo sulla lingua, proprio nei tre pezzi in italiano inseriti nel disco (cantato anche in inglese e francese): "Vana Gloria", "Vent'anni" e "Figlio di Puttana" (brano già di diritto negli inni del rock, vero anthem tutto da cantare ai concerti), dove la carica umana sgorga tumultuosa. Nient'altro che canzoni. Bellissime. Una collezione di perle nelle quali la voce, molto più dinamica che in passato, vibra creando un densissimo contatto con l'ascoltatore. E dove, come mai prima, gli Zen dimostrano d'essere italiani. Italiani come le macerie, dalle quali ancora una volta il rock'n'roll ha creato la magia e il miracolo. E se è vero che l'eccezione conferma la regola, benvenuti a "Villa Inferno". La più meravigliosa delle eccezioni italiane anno 2008.


Tracklist

01. Dead Penfriend
02. Wild Wild Life
03. Beat The Drum
04. Punk Lullaby
05. Dirty Feet
06. Figlio Di Puttana
07. Like A Girl Never Would
08. Narodna Pjesma
09. He Was Robert Zimmermann
10. Vana Gloria
11. Oh, The River!
12. Vent'anni
13. Les Tantes De La Dimanche


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Fonte: Rockit

Andate Tutti Affanculo - Zen Circus

Un vescovo, un sindaco col sigaro da mafioso e Miss Padania. E' la trinità essenziale per capire tutto il disco. Non sono, però, gli unici da mandare affanculo: ci sono anche i nati vincenti, la falsa morale, i padri che picchiano le madri, la gente di merda, gli amici che si sono arresi alla smart e non si accorgono che la moglie si scopa mezza città. I giovani che diventano vecchi senza esperienza.
Finalmente c'è qualcuno che alza la testa, in italiano e con una dialettica blasfema che non rischia mai di farsi fregare fermandosi in superficie. Anzi, va a fondo e cerca le radici di un mal governo, di un malessere, di una mala-vita che non è criminalità ma proprio vita vissuta male. E il bello è che non c'è nessuna volontà di salire sul pulpito o di ergersi su un piano diverso da ciò che si critica, il succo è proprio "vivere male, vivere tutti". Ci siamo immersi, in questa di vita di merda, e da quaggiù la cantiamo, la deridiamo, la mandiamo affanculo. Il tono è realistico e amaro: è un prendere atto e tirare una riga dritta.
Dieci canzoni, in cui finisce di tutto: gli attacchi che fanno tanto Tre Allegri Ragazzi Morti (ché lo zampino di Toffolo non è solo nell'etichetta ma anche in "Ragazza eroina"), il punk nella sua attitudine critica senza per forza diventare forza irriverente e distruttiva, suoni anni 80 toscani e anglofoni, certe chitarre acustiche che inevitabilmente sanno anche di anni 90. Il folk. Molti pezzi sono talmente ironici da essere costruiti come una canzone di chiesa, o come un salmo. Perché la presenza di riferimenti a Cristo, a Dio (che poi "se esiste, è un coglione"), a "nostro signore dei compromessi" è dappertutto. E' lo spirito del disco, una profonda verità: siamo sempre assoggettati ad un qualche dio: soldi, potere, amore, droga, feste comandate. Anche quando compare Nada in "Vuoti a perdere": un brano potente e dal buon gusto retrò. Ma quando lei corre con la voce su "maaaadreee", pensiamo a quella compagna di classe che andava a sgolarsi nel coro della chiesa. E le converse le porta ora, non nel '93 quando erano da pezzenti. A saperlo, che poi anche i pantaloni stretti non sarebbero stati più da froci, così come i nerd sarebbero saliti all'olimpo dei fighi.
Dieci canzoni, un po' come dieci, piccole novelle del Boccaccio: ognuna stigmatizza un comportamento, un vizio, un male. Con furbizia e precisione, e un sorrisetto d'accompagnamento. Dieci perle di saggezza, di cui si sentiva davvero il bisogno. Giudizio implicito, prospettiva che non si alza di un millimetro, "sufficit diei malitia sua": ad ogni giorno basta il suo affanno. Domani chissà, intanto oggi vediamo se Abdul li accetta lo stesso 20 euro + guanti della nonna, o se c'è qualcuno che si domanda davvero se anche i preti hanno il pene.


Tracklist

01. L'egoista
02. Vecchi senza esperienza
03. It's paradise
04. We just wanna live
05. Vuoti a perdere
06. Andate tutti affanculo
07. Amico mio
08. Ragazza eroina
09. Gente di merda
10. Canzone di Natale




Fonte: Rockit